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La guardia è stanca5/28/2009 11:53:58 AM





Anna Ruchat, «Pulp Libri», n. 84, marzo/aprile 2010


Sono trascorsi cinque anni dall'uscita di Certificato di esistenza in vita (Bompiani), sette dalla pubblicazione per Mondadori junior del bellissimo racconto per ragazzi I] segreto, più di dieci dall'ultima raccolta di poesie e nel frattempo Geraldina Colotti, giornalista de "il manifesto", responsabile dell'edizione italiana di "Le monde diplomatique ", ha finito di scontare i ventisette anni di carcere per la sua militanza nelle Brigate Rosse.

La guardia è stanca è un libro stanco di carcere e non solo. Nessuna recriminazione, nessun vittimismo, ma sono stanchi persino gli angeli ("ti veglino gli angeli stanchi/di antiche sconfitte", leggiamo nella bella poesia dedicata a Wilma) sullo sfondo del nuovo orizzonte irriconoscibile e dadaisticamente frammentato che Geraldina Colotti evoca con i suoi versi, soprattutto nel lungo poema centrale Le teste di Modi ("danzano maschere sui vetri rotti/ piaceri e profitti"). La guerra è finita e nella "democrazia imperante" non ci sono ne vincitori ne vinti, soltanto esseri umani più o meno stritolati dalla storia, c'è una vita domestica e quotidiana che a volte salva i miracoli, altre volte, come in Goodbye Lenin, una delle prime poesie della raccolta, li trafigge con il ferro dei ricordi:  "Da quella sete / bevande gassose / i nostri passi chiusi / nel verbo del trasmettere / all'agonia stringente dei miracoli / correva il fiume / mentre lente / miravano le fionde".

Fin dal titolo e dalla bella foto di copertina che ci mostra una ragazza imbronciata sull'angolo di una strada, con delle rose in mano, Geraldina Colotti annuncia la sua posizione di spettatrice disillusa ma scanzonata. Come una trivella i suoi versi, spesso in rima, giocosi e amari, brutali e tristi, a volte teneri, dissotterrano pezzi di realtà e di sogni dai recessi della mente e dell'universo buttandoli sulla pagina che festosamente, burlescamente li accoglie, diventando una sorta di discarica del presente.

Nonostante la dichiarata stanchezza i versi sono dunque mossi da un sotterraneo e vitale, candido divertimento che rimane la cifra di questa poesia, che non può non dirsi civile: "scopri la lingua dei fossili/ i suoni d'esilio/ bambina di scogli/ togli la terra dura/ togli con cura/ veli e fanghiglia".




Tommaso Di Francesco, Versi dolorosi, dominati dal non detto della sconfitta, «il manifesto», 24 marzo 2010


Come nell’ultimo romanzo di Paul Auster, Invisibile, Geraldina Colotti propone un enigma. Con La guardia è stanca, poema frammentato e articolato di brani e contrappunti disperati, tesse un’autobiografia al limite del reale, dove la consapevolezza estrema della sconfitta di vita e di lotta rigenera una rabbia verbale che si traduce in invettiva. Quale delle due vite sarà quella vera: lei che si dichiara sconfitta, perduta, o quella che fa della parola ancora una barricata accesa? E il diario privato in versi è all’altezza delle nuove allucinazioni del presente che disegnano un territorio devastato? Siamo dentro la storia, anzi, scrive Geraldina Colotti «mi tiene in pugno la storia», ma non c’è mostra della sua fine. E se la stanchezza della guardia rivoluzionaria che pose fine a quel che rimaneva della rappresentanza della Dumanel lontano groviglio dell’inizio dell’Ottobre, corrisponde all’ultima, attuale stanchezza, ecco che quella lontananza riverbera, nella durata, il ridicolo del presente, il comico della battaglia e dei vincitori, il dolore nervoso di chi è rimasto inesorabilmente in solitudine.

Brucia in questa poesia, al crocevia tra memoria e offesa da restituire in satira, l’essere stati protagonisti prima dell’assunzione della parola scritta, della presa inmano di strumenti affilati e concreti per combattere. E in quel combattimento d’essere stati annientati e catturati vivi. Senza per questo dichiararsi né vittima né tantomeno mito ed eroe, perché nei giorni resta «…nella sporta/ d’autunno/ qualche resa/ e paccottiglia/ le medaglie/ di ferro/ un canestro/ di puffi/ e la rossa/ bandiera». Nella forma di un distico ossessivo, senza mai punteggiatura, un verso d’una parola sola, con la rima a schiaffo tra ossimoro e specchio di calembour. E nell’atmosfera del recitativo a se stessa, come nei due piccoli atti unici Le teste di Modì dove il falso è prefazione al vero, e in Canoniche dove i soggetti del canto si ribellano all’autore.

Farsi teatro sembra la residua esistenza, dichiara Geraldina Colotti, «si faceva finta/ di niente», nella perseveranza-condanna al silenzio pubblico che è «lo stigma dei poeti». Che per istinto e formazione trovano solo il raffronto con i vinti di cui è disseminata la scena del reale – dai migranti che compongono per nostra condanna i nuovi cimiteri marini fino alla scoperta di un vero e proprio prototipo di sconfitta «politicamente corretta»: «voglio una vittima/ come si deve/ impari dai fiori/ come si muore/ …che in copertina/ lecchi lamano/ faccia l’inchino/ assuma la colpa/ del suo assassino».

È bene chiarire che «la guardia è stanca, ma ha scelto di andare», consapevole che questo è il tempo in cui «l’incidenza delle stelle/ è poca cosa/ quando incalzano/ ciechi/ i lupi». Ma se la poesia è inadeguata – «contro il liberismo/ versoliberismo» – che cosa allora lo è? Più dell’invettiva, più della satira, La guardia è stanca sembra appartenere al non detto della sconfitta, della quale – dicono versi dolorosi – non si può sfuggire col più frettoloso dei fingimenti: «Se muori/ con un fucile inmano/ hai l’impressione/ che tutto vada bene/ e si alzano le rondini al contrario/ e il mondo tiene/ a mani vuote il timone…/». In un lavorìo in controtendenza che è scavo ossessivo, tra le macerie morali e nelle trame del quotidiano, organizzando come per un giornale il tessuto delle parole disadorne: «Come fai/ festa/ a trascinare ancora/ grida e gesta/ se il giorno veste notte/ d’armatura…/». Parole che appartengono alla zona d’ombra che ci riguarda. È lì che arriva questa poesia: «Sono tra voi/ che avete stanze quiete». Allora di che è stanca la guardia? Che sia perenne la sconfitta, che dal passato contamini anche l’irriducibilità dei versi.




Valerio Cuccaroni, Carmilla on line

A cinque anni di distanza dal suo ultimo libro, Certificato di esistenza in vita, raccolta di racconti pubblicata da Bompiani, con La guardia è stanca Geraldina Colotti torna a interrogare, in versi stavolta («versi ciechi / di rabbia che consuma»), le coscienze dei lettori, sempre più incupite da «questo grigio tempo bastardo / che teme la vita».
Giornalista de «il manifesto», responsabile dell'edizione italiana del mensile «Le Monde diplomatique», reduce da 27 anni di carcere per la sua militanza nelle Brigate Rosse, Colotti è una di quelle scrittrici italiane di cui è impossibile trascurare la biografia, sebbene questa non oscuri mai l'opera, grazie a quel raro dono della leggerezza che permette all'autrice di evitare accuratamente le paludi dell'autobiografismo.

Così come in Certificato di esistenza in vita distanziava la materia della narrazione attraverso la finzione, nelle sue poesie, a partire da Versi cancellati (1996) e Sparge rosas (2000), Colotti dosa sapientemente la componente engagée con una vivissima e destabilizzante carica ironica.
Assolutamente non domestica, eventualmente si potrebbe definire carceristica (per decenni essendo stato il carcere la sua dimora), verrebbe da dire che Colotti è un poeta incivile, perché richiama continuamente, sottotraccia, la necessità di rovesciare il sistema. A partire dal sistema linguistico.
Le armi usate sono quelle dell'ironia, dunque, e della polisemia. L'ironia è la cifra dell'intera raccolta, ma esplode in tutta la sua perturbante carica soprattutto in una poesia che sembra parlare dell'igiene orale e, allo stesso tempo, alludere alla lotta armata: «Kit / Odontovax / Ricarica doppia / Azione totale / Ma attenzione / a non ledere / papille interdentali / [...] / Semtex / Ricarica doppia / Pasta gengivale / Saltano corone / tremano poltrone / sotto il trapano» (Ricarica doppia). Gli oggetti di consumo si rovesciano in strumenti di contestazione, il linguaggio del supermercato diventa la lingua della poesia, secondo un procedimento teorizzato nel poemetto dada Le teste di Modì: «Luogo mio da cui / Non si vede luogo, / batti le mani e canta, / mia lingua rovesciata / afferra l'anima per la vita / portala con te al supermercato».
La polisemia, caratteristica intrinseca della lingua che si oppone all'univocità, diventa strumento per opporsi al pensiero unico: dal calembour, che toglie la parola all'avversario disarmandolo - «Contro il liberismo, / versoliberismo» (Poeticanti) - all'antanaclasi, che ha portata argomentativa - «Guerra santa in Terra santa» -, e alla paronomasia - «fai buon viso / al cattivo giogo» (Recinti).
In Sparge rosas il discorso era frammentario, formato da testi isolati, reperti di anarchia linguistica, gli unici possibili, del resto, quando ancora l'orizzonte era quello chiuso della Vita galera («Vita non vita / esercizi di stile / esercizi di bile»). Ne La guardia è stanca i giochi di parole, gli agguati al linguaggio sono inseriti in un piano di sviluppo: le sezioni Ai soli distanti, Le teste di Modì, Genova 2001, Palestina, Neve funzionano come altrettanti capitoli di un romanzo breve in versi, un romanzo di controinformazione, che, in forma ellittica, com'è proprio della poesia, dà conto non solo della sorte degli sconfitti (i soli distanti, i guerriglieri, i terroristi sconfitti, rifugiati a Parigi: «il sole inutilmente chiede asilo», in Rive gauche) ma anche, e soprattutto, delle nuove forme di ribellione e resistenza (le «rondini inquiete» di Genova 2001, i Palestinesi, i migranti dei Cimiteri marini, per i quali «La morte arriva puntuale / il mare a forza nove / entra nella stiva / porta alla deriva»).
La figura dominante non appartiene più a quelle di parola o di suono, come accadeva nelle raccolte precedenti, ma è una figura di pensiero: l'allegoria. I ragni, le rondini, la luna, le rose, i soli, il fiume, il deserto, i topi, che affollano La guardia è stanca sono altrettante figure allegoriche che simboleggiano strategie (i ragni), stagioni calde (le rondini), utopie (la luna), conquiste (le rose), rivoluzionari (i soli) e rivoluzione (il fiume), sconfitte (il deserto), tradimenti (i topi).
La guardia è stanca
, sin dal titolo che richiama la celebre esclamazione con cui il marinaio anarchico bolscevico Zeleznjakov sciolse l'Assemblea costituente nella Russia liberata dell'ottobre 1917, si presenta come un appello ai nuovi figli di una delle tante ribelli del secolo scorso, «dee delle due di notte / dotte / o bollite a metà disperate / però simpatiche mi hai detto» (Amiche).
La situazione storica sfavorevole, del resto, non è ignorata («Dov'è il sacro / Se il dio degli assassini / Dentro il tubo catodico / Ha l'alito di vino? // Sotto i guanti il sangue / della democrazia imperante», Le teste di Modì), anzi è assunta come dato di fatto da cui ripartire: come recitano i versi conclusivi, è «Ancora inverno / nessun palazzo preso / ma abbiamo ancora inverno / per impastare neve» (Neve).